IL VALORE DEL RICORDO
tratto da GIORNI VISSUTI COME SE FOSSERO ANNI di Liborio Guccione, giornalista e scrittore aliese, che ambienta tale sua opera nel paese natìo degli anni ’30 -’40. Per la gentile concessione alla divulgazione telematica del libro, si ringraziano sia gli Eredi dell’Autore sia l’Amministrazione comunale di Alia, che nel 1997 ne ha curato la prima edizione.
”In quel mio tempo si viveva semplicemente, ed anche le piccole cose, i piccoli avvenimenti della vita quotidiana finivano per assumere interesse nella comunità. Perché, è risaputo, la storia ha bisogno di nutrirsi di grandi eventi, di grandi personaggi, di imprese colossali, dell`insieme, in una parola, trascurando il particolare. La vita delle piccole comunità non fa storia. Le piccole comunità si nutrono di poche cose, di spiccioli, di particolari. Che però formano un tessuto fitto di vita quotidiana semplice, ma un tessuto intrecciato di tanti variopinti fili che danno a ciascuno e a tutti il senso completo della loro esistenza; in una parola della loro autentica storia.
Personalmente ho ricordi che ancora oggi mi inducono alla riflessione. Sono sbiaditi ricordi che ancora mi assistono e ai quali faccio volentieri ricorso perché nella loro semplicità essi sono emblemi di vita che hanno inciso nell`animo e, in quel tempo, aiutavano a crescere, davano modo di misurarsi perfino nei propri comportamenti. I ricordi sono importanti nella vita di un uomo perché aiutano a confrontarsi, a riconoscersi. Essi entrano ed escono come ospiti inattesi. I ricordi, tristi o lieti, sono componenti della storia di ciascun uomo che, pertanto, ne deve conservare la memoria. Sono nella nostra mente come attori dietro le quinte in attesa di entrare in scena. Ed intanto stanno con gli orecchi puntati sul palcoscenico, dal quale giungono le voci della recita dei loro colleghi, e attenti a percepire gli umori della platea, a fremere ad ogni segno di consenso o di critica, sentendosi partecipi con eguale ansia. Ma mentre ascoltano, i loro occhi sono fissi sul capocomico dal quale attendono da un momento all` altro il segnale che li chiami ad entrare in scena per recitare la loro parte.
Ecco cosa sono i ricordi: attori in attesa di entrare nella scena della vita per scuotere la memoria dell`uomo, per sensibilizzare la sua recita sul palcoscenico della esistenza. Ho il ricordo, per esempio, di una donna. Mi pare si chiamasse Ciaramia e abitava con la sua numerosa famiglia in una di quelle case che fanno ala alla scala del «parco». Per me quella donna, la sua vita di stenti, le sue tribolazioni, rappresentano un simbolo di quel tempo lontano. Ma non della miseria piagnona, bavosa. No, Quella famiglia portava la sua miseria con dignità, come fosse lo stendardo di un antico casato. Ne parlo, dunque, con grande rispetto e tanta emozione.
La Ciaramìa era una donna bruna, minuta, dalle fattezze dolci, carina, due occhi neri e brillanti, ma pieni di mestizia; sempre vestita in nero, un colore permanente in Sicilia, che segna il lutto, il dolore che non cessa mai, che è continuo. In Sicilia il dolore non si sa quando comincia e non si sa quando finisce. Non c`è porta di casa che non rechi il segno del lutto: un drappo nero che col tempo perde il suo originale colore, sbiadisce e finisce per diventare di un rosso scuro, quasi viola o marrone sporco. Un colore indefinibile, ma il cui significato non muta: resta quello del primo giorno, non si sa neppure la data, in quale anno fu apposta quella pezza per la prima volta sulla porta di casa con quattro chiodini. Per chi è quel lutto? Qualche volta un biglietto, scritto con mano malferma, di chi non è uso a scrivere, ne indica il grado di parentela: per mio marito, mio padre, mia madre, zio, cugino... e così via per una gamma infinita di parenti che non finiscono mai. Perché in un paese sono tutti parenti, tutti zii e cugini! Ma quella pezza nera non viene mai tolta: si aspetta il prossimo immancabile parente che morirà. Mettono tanta tristezza quelle strisce di pezza nera sull`uscio di casa. Il nero in Sicilia fa lutto e fa eleganza: ci si va a matrimonio, e al funerale. Sempre in nero! Il lutto per gli uomini era simboleggiato dalla fascia nera al braccio e la cravatta pure essa nera, e la barba incolta: non si rasavano per quindici giorni e a volte un mese. Come a significare che il dolore era tanto acuto da non avere pensiero per curare la propria immagine. ”
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